La depressione post-parto: un mito da sfatare
(in “Nascere, le parole per dirlo” a cura di M. Farinet – Franco Angeli editore) Non stupisce la recente richiesta della SIGO di ricorrere al TSO per il trattamento delle depressioni post-parto: ciò appare infatti come la naturale conseguenza di un ventennio di forzata medicalizzazione della gravidanza che trova qui ora il suo culmine – anche se non ci stupiremmo di sviluppi ulteriori.
Dopo la straordinaria ma breve impennata di intelligenza degli anni ‘70 che era riuscita a influenzare il generale atteggiamento verso la sofferenza psichica, ha avuto inizio una massiccia e strisciante medicalizzazione della maternità - trasformata da evento di natura in malattia - che recentemente è diventata una vera e propria psichiatrizzazione, sua forma più raffinata e perversa. Scopo di tutto ciò è il controllo blindato del percorso della gravidanza per proteggerla – questa è la ingenua e sciocca fantasia - da possibili e imprevedibili insuccessi.
Non si contesta qui naturalmente l’uso delle analisi, delle ecografie, dei farmaci, del cesareo e dell’epidurale come ausilio e accompagnamento alla gravidanza là dove tale ausilio è necessario, ma l’imposizione di un percorso totalmente medicalizzato il cui unico obiettivo coincide con quello aziendale di un buon prodotto, in poco tempo e senza rischio: insomma la garanzia di una riuscita senza difetti e incidenti. Nulla di più contrario alla sostanza della vita e degli affetti, di cui la maternità e la paternità sono passaggio cardine.
Per più di vent’anni mi sono prodigata per portare la conoscenza dell’affettività in maternità: perché è questo che manca, sia nel personale impegnato ad assistere e a accompagnare, che negli attori della vicenda creativa stessa, i futuri genitori.
Ho spiegato altrove per quale motivo ritengo che la nostra cultura, così avanzata in tanti campi, possa essere tanto ignorante e superficiale in questo: si tratta infatti di un portato storico dovuto all’impostazione della nostra scienza rinascimentale che ha più o meno volutamente o coscientemente rivolto uno sguardo alla realtà utile per capirne certi aspetti ma assolutamente inadatto a coglierne la complessità . La scienza in Occidente ha escluso in partenza un qualsiasi interesse per la teorizzazione dell’affettività umana, essendosi esclusivamente occupata del mondo materiale a causa di una scissione indebita e illecita del reale, e avendo affidato tout court la comprensione dello “spirito” alla competenza religiosa: che è altra cosa, rispettabile, importante, ma è altra cosa. Solo recentemente la vita affettiva dell’uomo è diventata oggetto di studio e conoscenza scientifica – sia da parte della psicologia che della neurobiologia - e concordo del tutto con M.Odent quando afferma che tale innovazione avrà lo stesso effetto sulla nostra civiltà che ebbe a suo tempo la scoperta del fuoco, foriera di una vera e propria rivoluzione nella storia dell’uomo sulla terra.
Di più, io credo fermamente che oggi l’unica possibilità di uscire dal vicolo cieco di una società e di una cultura agonizzante, che rischia di trascinare con sé nella propria rovina il resto del mondo, sia la valutazione e l’affermazione dell’essenza del “femminile”, custode dei sentimenti e dei bisogni primari. Abbiamo infatti costruito un mondo che nega e misconosce le istanze affettive di base semplicemente perché non le conosce.
Il percorso della maternità è dunque un momento cruciale di questa rivoluzione e ben lo comprese trent’anni fa Costantino Mangioni quando mi affidò la cura di operatori e genitori nel reparto di ostetricia di Monza: intendeva e voleva una rivoluzione dei costumi. Soltanto infatti un approccio globale diverso può aiutarci a comprendere l’essenza affettiva della maternità e quindi a interpretarne le complicanze. Ma per far ciò bisogna accettare la complessità e percorrerla, non disgiungendo fisico da emotivo, bisogna tornare a fare i clinici che si domandano il perché delle malattie e delle sofferenze e non si accontentano di tacitarle provvisoriamente con esami e farmaci.
Un grave errore di noi psicologi è quello di prestarci a rappresentare la nostra materia come luogo della cura della sofferenza – il poco amichevole “strizzacervelli” – quando in realtà la psicologia deve proporsi innanzitutto come scienza e conoscenza degli affetti nella loro fisiologica base naturale e nel loro compito primario di garanti della sopravvivenza della specie.
In particolare nella gravidanza e nel parto – se letti e interpretati emotivamente – la natura ha racchiuso un intero trattato di psicologia evolutiva. Da questa descrizione degli affetti – che non posso qui sviluppare – estrapolo solo l’informazione, ignota ai più, che durante la gravidanza la natura opera a favore della simbiosi fra madre e bambino, a garanzia della vita che deve nascere, sia da un punto di vista fisico che emotivo. Infatti a livello ormonale, l’aumento di progesterone agisce emotivamente e fisicamente a favore di questa stretta saldatura=identità. E se da un lato la parete endometriale si ispessisce per accogliere favorevolmente l’uovo fecondato, dall’altro la donna viene percorsa da emozioni più intense delle sue abituali femminili, che la portano a una sensibilità accentuata molto vicina all’acuta sensibilità della sua creatura, già in utero capace di percepire l’inizio di un viaggio affascinante che sarà tale se, venendo al mondo sprovvisto di qualsiasi capacità o conoscenza, si sentirà accompagnato dall’adesività totale della propria nutrice. Questo magico aumento di sensibilità porta la donna a una “regressione”, un tornare bambina per sentire in maniera più acuta i propri bisogni e potersi identificare e agire a favore dei bisogni del suo bambino, capace di esprimersi solo con un intenso ma criptico “uè”. Paradossalmente la donna in gravidanza è – nella stessa misura del suo piccolo – al colmo della propria potenza ma anche della propria fragilità: è possibile tenerne conto senza difendersene, cioè senza medicalizzare né psichiatrizzare. Basterà ottenere, formandoli, che gli operatori che ruotano intorno alla gravidanza, conoscano l’atteggiamento genitoriale corretto che è sempre, come insegna Fornari, una congiunzione oculata di “femminile” e “maschile”.
Tale “regressione” che comporta un ritorno allo stato infantile, espone la donna all’emergere di ricordi e vissuti della propria infanzia spesso mai precedentemente elaborati: le donne che non hanno avuto la fortuna di essere adeguatamente scortate nella loro crescita, si trovano a confronto con una propria capacità biologica adulta non sostenuta da una altrettanto valida forza e pienezza emotiva: ciò si traduce inevitabilmente in paura, preoccupazione, nella richiesta pressante di rassicurazioni esterne, nella difficoltà a partorire, nell’incapacità a gestire il neonato, svelando così la presenza di nuclei infantili che non andrebbero penalizzati ma compresi, guidati ed aiutati a raggiungere manifestazioni emotive più adeguate al nuovo compito creativo. Il fatto che stia aumentando il numero di donne o coppie che mostra disagio al momento della nascita di una creatura la dice lunga su come la nostra società non fornisca più ai piccoli o agli “ex-piccoli” la considerazione e le cure necessarie per raggiungere una piena e gioiosa maturità.
Comprendere le cause serve per prevenire. Per anni, avendo istruito medici e ostetriche sulla normale fibrillazione emotiva della gravidanza, li ho resi capaci non solo di condividere senza preoccupazione gli stati d’animo delle loro pazienti ma anche di distinguere e riconoscere situazioni di disagio più complesse per poterle avviare all’assistenza psicologica. Questo permette un intervento non punitivo ma costruttivo, un aiuto durante la gravidanza che restituisce alle donne capacità insospettate, una conoscenza di sé e dei propri vissuti capace di ripercorrere esperienze pregresse anche infelici, con la possibilità di costruire un’alternativa di vita concreta da utilizzare nella propria esperienza di madre.
In un ambiente di assistenza alla gravidanza affettivamente sensibile e preparato è dunque possibile individuare precocemente i disturbi dell’umore che, trascurati, possono anche divenire depressione post-parto. Ma “anche” e non “solo”. Perché in maternità si “slatentizzano” non solo le depressioni pregresse che non sorgono a causa del parto, ma anche fobie, ossessioni, psicosi, insomma tutta la gamma di disturbi mentali che inutilmente ci affanniamo a classificare nei vari DSM. La gravidanza, fra l’altro, proprio a causa della sua facilitazione emotiva, è epoca che rende la cura molto più facile, più rapida, perché conflitti e problemi appaiono esposti e più facilmente rielaborabili in un sano rapporto di aiuto.
E allora il problema non è il cosiddetto maternity blues che configura un passaggio tanto normale in ogni costosa attività creativa; e non lo è nemmeno la depressione post-parto che non esiste in quanto tale: il problema è la superficialità di un approccio che sottace la complessità affettiva del percorso della gravidanza e non ne comprende la natura affettiva. Nella gravidanza, come in tutti i momenti di grande cambiamento della vita, è presente una instabilità che porta alla luce le fragilità: qui il passaggio simbolico è pregnante in quanto si chiude l’epoca in cui si è stati figli e si apre quella in cui si diventa genitori, cardine della vita affettiva che porta con sé la memoria e la malinconia di un periodo ormai perduto e colora di responsabilità il proprio cammino di vita tingendo l’esistenza di quel senso del divenire che fa avvertire concretamente come le cose passano inarrestabili e come ciò che consola non è fermarle, che non si può, ma consumarle bene per sé e per gli altri.
Sempre più nel mondo occidentale le persone soffrono di disturbi psichici: la proiezione al 2020 è agghiacciante nella previsione di una percentuale di sofferenza che supererà la metà della popolazione: davanti a ciò non si possono soltanto produrre e distribuire pillole. Forse dovremmo dirci che c’è qualcosa che non va, che i nostri costumi di vita, alimentati dalla legge della concorrenza e del profitto, contrastano con i bisogni affettivi di base che, negati, fanno ammalare e rendono infelici. Il problema non è solo delle famiglie che non sanno educare, ma è della scuola e della società tutta che non pensa ai bambini e ai giovani, non li protegge dai falsi idoli e non offre loro opportunità per maturare e crescere. Siamo in una società spietata, concorrenziale, egoista, edonista, idiota, priva di una qualsiasi significativa testimonianza di un “femminile” attento ai veri bisogni: i più fragili cadono e sono sempre di più.
Su percorsi esistenziali personali drammatici e difficili, che rendono la maturità e la felicità un sogno impossibile, si innescano quelle violenze sociali che si chiamano ghettizzazione, solitudine, sospetto, vergogna, anatema, isolamento: le donne più sensibili, profondamente solitarie con la loro creatura piena di bisogni, colme di bisogni sottaciuti loro stesse e mai elaborati, isolate in città asettiche e in condomini anonimi dove la vita affettiva, se c’è, si svolge nel segreto degli appartamenti e delle camere, mai in condivisione, in una solidarietà e complicità di vita e di progetto, non reggono, crollano e a volte arrivano a pensare di liberare la loro creatura da una sofferenza di vita che sembra a loro stesse intollerabile e in cui non se la sentono di poterla accompagnare.
Allora non possiamo accettare che l’etichetta della “depressione-post-parto” copra una vergogna di tutti e stigmatizzi comportamenti come malati senza fare nulla per capirli e trarne ispirazione per cambiare qualcosa nel nostro modo di operare e di vivere, a partire proprio dal mondo della maternità, per rendere quella stagione della vita più godibile per la mamma e per il bambino, custodi per noi del mondo degli affetti da cui non si può prescindere per sopravvivere. “Umanizzazione” deve smettere di essere uno slogan: deve diventare un progetto concreto per cambiare, a partire dalla nascita, il destino dell’uomo nel mondo.